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ROSENCRANTZ E GUILDENSTEIN SONO MORTI
(ROSENCRANTZ AND GUILDENSTEIN ARE DEAD)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 dicembre 1991
 
di Tom Stoppard, con Gary Oldman, Tim Roth, Richard Dreyfuss (Gran Bretagna, 1990)
Rosencrantz e Guildenstein non sono che due comparse nell'Amleto; due presenze puramente utilitarie, che nulla rivelano di loro stesse e che si limitano ad assistere - ed a convincere lo spettatore - della finta follia del celebre personaggio di Shakespeare.

Quando Tom Stoppard decide, nel 1966, di " riscrivere " il dramma, chiamandolo ROSENCRANTZ E GUILDENSTEIN SONO MORTI, egli sembra voler riempire quel vuoto, ed i due diventano protagonisti. Due sciocchi che ora, nella versione cinematografica che il drammaturgo inglese decide di mettere in scena di persona, ci ricordano inevitabilmente certe associazioni di presunta sciocchezza-intuizione: degli Laurel e Hardy o Abbott e Costello che per il capriccio intellettuale di un autore si ritrovino improvvisamente nell'assurdo di un dramma di Beckett.

Nella versione Stoppard dell'Amleto - se vogliamo chiamarla cosi - lo spettatore si ritrova in una situazione inedita. Da un lato, egli conosce da sempre i segreti del capolavoro shakespeariano: Claudio e Gertrude che mentono per dissimulare il loro complotto, Amleto che finge la follia per dissimulare la propria vendetta. Dall'altro, egli si ritrova ora due nuovi protagonisti che non riescono a raccapezzarsi del dramma che li circonda. Due derisori, eventualmente commoventi personaggi, che parlano per non dir niente: giochi di parole, incastri preziosi quanto inutili (" Gioco con le parole " - dice Guildenstein al compare - " non abbiamo che queste ").

Fra questi due elementi drammatici che parlano, si agitano e mentono Stoppard (come Shakespeare d'altronde, ma con fini diversi) ne introduce un terzo: il gruppo degli attori ambulanti che irrompe nella scena, guidati dall'Artista (Richard Dreyfuss, in un'interpretazione di grande virtuosismo). Contrariamente a tutti gli altri, essi non parlano, e quindi non mentono: si limitano a mimare, dimostrare e quindi ad agire. Ed il solo ad usare la parola, l'Artista, è anche il solo a dire cose sensate: il solo, in tante rimesse in questione della verità, alle parole del quale lo spettatore si sente di prestare fede.

Erede anglosassone, a partire dagli anni Sessanta assieme ad Harold Pinter e Pete Nichols della tradizione del teatro francese dell'Assurdo, Stoppard è uno straordinario virtuoso del linguaggio. E non meraviglia quindi il fatto che egli faccia del capolavoro skakespeariano il teatro di una meditazione sulla Parola, sulla dialettica fra questa ed il silenzio, fra l'uso di questa ed il potere di agire: le parole conducono tutti i personaggi alla morte. Con la sola eccezione degli Artisti: che, come abbiamo visto, rifiutano di restarne prigionieri.

Da parte di un artista che di quest'uso ha fatto la ragione della propria vita (e i dialoghi del film, di una preziosità incantevole, lo evidenziano ad ogni istante) un discorso di questo genere non potrebbe che sfociare in una meditazione elevata e struggente, una sorta di testamento spirituale. Tom Stoppard ne era ovviamente cosciente, se è vero che ha deciso, per la prima volta in vita sua, di essere anche il regista di un proprio dramma: lui, lo sceneggiatore di molti capolavori cinematografici messi in scena da Losey o da Fassbinder, da Spielberg o da Preminger, da Gilliam (BRAZIL) a Schepisi (il recente LA CASA RUSSIA).

Il risultato è estremamente ammirevole, e regolarmente (proprio perché, come dice lui nel film, la parola non è l'immagine) relativo: anche se il Leone d'Oro alla Mostra di Venezia del 90 è eccessivo, ROSENCRANTZ evita lo scoglio d'obbligo, che è quello del teatro filmato. Stoppard fa di tutto per evitarlo, anche di cadere nell'eccesso opposto, che consiste nel diluire artificiosamente l'azione: l'ambiente è prezioso, gli attori diretti alla perfezione, i mimi ed i pupazzi squisiti, i tentativi di visualizzare in modo dinamico l'origine teatrale evidenti.

Ma la Parola che è al centro del dramma è una parola diversa da quella di un Rohmer: qui è vista accademicamente, letterariamente, prioritariamente. Là serve da supporto alle immagini, alla struttura filmica: che rimane la preoccupazione prima dell'autore. Quello di Tom Stoppard rimane un mondo affascinante, nel quale l'immagine, per nobile che sia è a servizio, anzi a mezzo servizio.


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